Matrici e Forme

Uno dei “nuclei tematici” più rilevanti nell’ambito degli studi sulla canzone napoletana è quello del rapporto con le “matrici musicali” che possono aver influito sulle “forme musicali” assunte dal repertorio nella sua progressiva definizione dagli inizi alla fine dell’Ottocento: un binomio, quello di “matrici” e “forme”, da intendere in un processo continuo di scambi del quale è difficile, se non impossibile, stabilire un’origine precisa. Di seguito una breve rassegna delle diverse matrici individuate, dall’opera buffa alla musica di tradizione orale, dalle canzoni narrative alle canzonette urbane da foglio volante e alle musiche per il ballo: per ciascuna matrice uno o più esempi tratti dal vasto repertorio esaminato che copre più di mezzo secolo.

Opera buffa: le due Serenate di Pulcinella
Una prima matrice rilevabile nelle canzoni napoletane del primo ‘800 è di stampo “colto” e riguarda arrangiamenti di brani tratti o presenti anche in opere buffe precedenti. Il primo esempio è dato dalla Serenata di Pulcinella pubblicata anonima da Cottrau nel 1824 ma che già in una successiva ristampa dei Passatempi, probabilmente del 1852-1853, era attribuita a Cimarosa. La prima fonte scritta rinvenibile di questo brano è la cavatina buffa, dall’aria Sono entrati gli ascoltanti, tratta dall’opera Chi dell’altrui si veste presto si spoglia, scritta proprio dal celebre musicista di origine aversana nel 1783 su libretto di Giuseppe Palomba. Più o meno lo stesso discorso vale per la 2ª Serenata di Pulcinella, pubblicata da Cottrau nel 1829 la cui fonte (seppure per il solo incipit testuale e per la “somigliante” linea melodica iniziale) potrebbe essere Gioia de st'arma mia, un duetto cantato da Pulcinella e Carmosina in una scena del Pulcinella vendicato nel ritorno di Marechiaro, composto da Giovanni Paisiello nel 1769, su testo di Francesco Cerlone. Tale farsetta in un atto era adoperata anche come una sorta di quarto atto della più famosa L’osteria di Marechiaro, degli stessi autori, risalente all’anno prima (1768). C’è, infine, da precisare che le due “serenate” di Pulcinella pubblicate separatamente da Cottrau non sono legate se non dal “titolo” e, soprattutto, non sono entrambe da attribuire a Cimarosa, come spesso si è fatto.

Musica di tradizione orale: il caso Michelemmà
Una seconda tipologia di materiali è legata alla musica di tradizione orale per quanto di questi brani non si sappia come erano eseguiti fino alla prima ‘trascrizione’ su pentagramma che è quella di Cottrau agli inizi dell’Ottocento. Di brani “aggiustati” da Cottrau, spesso con un’inequivocabile fattura ottocentesca, si danno così, ancora oggi, improbabili datazioni, prive di fondamento storico. Un esempio su tutti la Canzone delle lavandaie del Vomero collocata addirittura nel 1200 ma eseguita sempre sulla “trascrizione” o “rielaborazione” pubblicata da Cottrau nel 1824 (Passatempi Musicali, fasc.1) col titolo Tu m’aje prommise quatto moccatora. Canzona di lavandaja, poi ripresa anche da De Meglio che la pubblicò col titolo Ritornello delle Lavandare del Vomero.
Nella musica di tradizione orale, del resto, non esiste quasi mai un matrimonio indissolubile tra un dato testo e una determinata musica per cui è possibile che anche nell’Ottocento uno stesso testo o testi simili venissero cantati con melodie diverse e, viceversa, che una stessa melodia servisse per cantare versi differenti ma metricamente equivalenti. Una doppia circolazione di questo genere hanno sicuramente avuto molti brani di origine popolare come Michelemmà o Fenesta che lucive: in ambito contadino come testi rituali da utilizzare per l’esecuzione di un canto sul tamburo o tammurriata, di una tarantella, di un canto a cupa-cupa o alla zampognara secondo versioni caratterizzate da specifiche modalità stilistiche; in ambito cittadino, invece, come canzonette associate a delle melodie, su cui  però si cantavano anche altri testi  aventi lo stesso schema metrico. Le “trascrizioni” di Cottrau andavano a pescare principalmente in questo secondo ambito poiché si trattava di materiali più plasmabili per una riproposizione per canto e pianoforte da salotto, rispetto a quelli di ambito contadino.
In particolare, di Michelemmà. Canzona di pescatore , pubblicata la prima volta da Cottrau nel 1824 (Passatempi, fasc. 1), abbiamo testimonianze fin dal Settecento poiché frammenti del testo li ritroviamo nell’opera di Cerlone Il villeggiare alla moda o sia La creduta infedele del 1779 e ne Lo Vernacchio di Luigi Serio del 1780. Numerose tracce del brano le ritroviamo però anche nell’ambito della musica di tradizione orale con varianti napoletane, riportate da Molinaro Del Chiaro, e una lezione siciliana, riferita da Salomone Marino. Accanto a queste fonti letterarie, ci sono poi testimonianze sonore più recenti che attestano la sopravvivenza del testo in diversi repertori musicali di tradizione contadina: frammenti di Michelemmà, ad esempio, si ritrovano in un canto a cupa-cupa registrato da Ernesto De Martino a Castelsaraceno, in provincia di Potenza, nel 1956 e in un canto d’amore raccolto da Leonardo Alario nel 1991 a Mormanno, in provincia di Cosenza. Oltre che in Basilicata e Calabria, il testo si riscontra anche nei repertori tradizionali e rituali di area campana, come ad esempio nella tammurriata per la festa della Madonna dei Bagni a Scafati registrata da Roberto De Simone nel 1974 o in un canto a mete (canto di mietitura) registrato da Claudio Petruziello a Pratola Serra (AV) nel 1982-83. Sul piano musicale tutti questi brani sono, ovviamente, difformi dalla Michelemmà pubblicata da Cottrau poiché eseguiti sulle melodie e negli stili esecutivi tipici del canto tradizionale delle diverse aree geografico-culturali. Prima dell’intervento di Cottrau, non esisteva un brano specifico denominato Michelemmà ma solo un testo con significati magico-simbolici e riferimenti storici i cui frammenti venivano utilizzati sia per espressioni musicali rituali (appunto canti a cupa-cupa, sul tamburo o a mete) che per canzonette “contadine” sulle cui melodie si potevano magari cantare anche altri brani con lo stesso schema metrico. Ed è solo dopo l’intervento di Cottrau, cioè dal 1824, che il brano ha assunto la conformazione della Michelemmà che oggi tutti conosciamo e cantiamo.

Canzoni narrative o “epico-liriche”: il caso Fenesta che lucivi e mo nun luci
Una delle matrici “orali” più interessanti nel repertorio di questo periodo, finora poco considerata, è quella relativa alle cosiddette ballate o canzoni narrative, ovvero ai canti che Costantino Nigra definiva “epico-lirici”, ritenendoli -a torto- patrimonio quasi esclusivo dell’Italia settentrionale. Diversi brani pubblicati nei Passatempi, infatti, altro non sono che le versione napoletane di ballate diffuse sia in Italia settentrionale che all’estero, soprattutto in Francia e Spagna. L’esempio più eclatante è Fenesta che lucivi e mo nun luci che si ricollega alla ballata La sposa morta (Nigra n. 17). La filiazione della versione napoletana, cristallizzata nella canzone pubblicata da Cottrau, è nitidamente indicata in una corrispondenza epistolare di Giulio Cottrau che si riporta integralmente: “Il tema popolare autentico [di Fenesta che lucivi] non consisteva anticamente, secondo ogni apparenza, che delle bellissime quattro prime battute: le altre 4 battute che sono copiate dalla Sonnambula (più l’Introduzione o ritornello per pianoforte) hanno dovuto essere aggiunte o da mio padre o dal Mº Federico Ricci che anche si occupava di raccogliere i canti popolari”. L’ipotesi che il brano potesse essere diffuso tradizionalmente anche in una versione costituita da due semplici frasi melodiche (ab), oltre che dalla variante raccolta in Basilicata da Diego Carpitella e cantata da Grazia Prudente, sembra avvalorata dalle due lezioni calabresi raccolte più recentemente da Alario ad Alessandria del Carretto e Cassano all’Ionio.
La presenza nel fondo Noseda, presso la biblioteca del Conservatorio di Milano, di un manoscritto nel quale il brano viene presentato in una semplice struttura melodica ab potrebbe costituire una tappa “intermedia” tra la prima versione (abbastanza “diversa”) raccolta da Cottrau, documentata nel manoscritto del 1840 inviato da Lina (sorella di Guglielmo) alla sconosciuta “madamoiselle Luoff”, e quella invece “definitiva” ad opera del Ricci, che la pubblicò nel 1841 come Canzonetta. La mia bella è morta oppure dello stesso Cottrau che la diede alle stampe, qualche anno dopo, nel 1843 col titolo Fenesta che lucivi e mo non luci. Il dilemma sulla paternità della stesura finale del brano, con l’aggiunta della parte “belliniana” (somigliante all’Ah, non credea mirarti della Sonnambula), rimane quindi ancora insoluto.

Canzonette urbane su fogli volanti: La Luisella
Un’ulteriore matrice ravvisabile nel repertorio del periodo riguarda sicuramente le canzonette urbane diffuse su fogli volanti rispetto alle quali duplice poteva essere l’intervento di Cottrau o di altri compositori dell’epoca: rielaborare le melodie tradizionali con accompagnamento di pianoforte oppure prenderne il solo testo, componendo ex-novo una musica originale. Un esempio del primo tipo di intervento è La Luisella di cui conosciamo almeno tre versioni su fogli volanti. La prima, pubblicata dalla stamperia Azzolino col titolo La Luisella de lo Scutillo, Canzona popolare coll’intercalare: Luisè tanto matina – Non me venì a chiammà, è firmata da Totonno Tasso e riproduce il solo testo. Le altre due versioni, stampate invece da De Marco, sono entrambe firmate da “E. P.” (quasi certamente iniziali di Emmanuele Palermo): una col titolo La vera canzona di Luisella la Ciardenera de copp’a lo Scutillo  con il solo testo e l’altra, La vera Luisella la ciardenera co la museca , con lo stesso testo ma accompagnato dalla melodia che è in 6/8 e nella tonalità di Do magg. E con ogni probabilità è proprio da questa fonte musicale che Cottrau parte per la sua “rielaborazione” musicale del brano. Con un sottotitolo molto indicativo, la canzone viene pubblicata come La vera Luisella come si canta per le strade , dall’editore Girard verso la fine del 1844 e sarà poi raccolta, l’anno dopo, nel 3º Supplemento. Il testo della versione Cottrau potrebbe derivare da quello del Tasso, dal quale vengono “estrapolate” 7 delle 14 strofe. 
Poco prima, verso la fine del 1844, era apparsa però un’altra versione della canzone a firma di Francesco Florimo col titolo Luisella , pubblicata sempre da Girard nella raccolta I canti della Collina, con una melodia, in 6/8 ma nella tonalità di Mib magg., ancora più vicina a quella del foglio volante. Un’ulteriore versione per canto e pianoforte, col titolo La Luvisella, musica di G. Torrente, pubblicata verso il 1848 dall’editore Clausetti ma proposta anche da Fabbricatore nella 1ª Raccolta delle Canzoni Nazionali Napolitane, presenta una melodia e una tonalità che coincidono esattamente con quella del foglio volante pubblicato da De Marco, mentre il testo è quello di Tasso stampato da Azzolino, dal quale vengono riprese ben 13 delle 14 strofe.
Luisella appare dunque un chiaro esempio, e non certo l’unico, di come da brani diffusi, peraltro già con differenti varianti, a livello urbano attraverso fogli volanti, destinati prevalentemente al popolo dei lazzaroni o degli artigiani, potessero poi nascere diversi trattamenti “colti” per canto e pianoforte, indirizzati, invece, ai salotti nobil-borghesi.

Musiche per il ballo: La Lanterna Magica
Nell’ambito delle matrici della canzone napoletana del periodo una grande importanza hanno le musiche per i balli eseguite nei salotti ma diffuse anche a livello popolare in ambito urbano, al pari di numerose canzonette che si eseguivano su melodie di balli famosi e senza considerare che alcune parodie di balli, come la quadriglia o la contradanza, potevano eseguirsi su motivi di celebri canzoni popolari come attestato da alcuni fogli volanti. Una tipologia abbastanza diffusa al riguardo è quella delle canzoni ‘ncopp’ a la tarantella, vale a dire le canzoni sul ballo popolare napoletano per antonomasia. Le canzoni potevano però nascere anche dall’utilizzo o dall’imitazione di melodie pensate per altri tipi di balli di società allora in voga e d’uso nei salotti come contraddanza, quadriglia e soprattutto valzer.
Appartiene a questo ambito La Lanterna Magica che, pubblicata da Guglielmo Cottrau nel 1844 e poi raccolta nel 3º Supplemento del 1845, altro non è che un’imitazione del Marien Walzer op. 143 di Joseph Lanner, pubblicato a Vienna nel 1839. Il brano era talmente popolare da essere suonato anche coll’organetto per le strade di Napoli, come evidenziato da un avviso dell’editore Girard del giugno 1844 che lo pubblicizzava: e “lanterne magiche” erano chiamati a Napoli questi organetti con ogni probabilità per il fatto che questi suonatori avevano al seguito proprio la ‘lanterna magica’, portata da loro stessi o spesso dai ragazzini che li accompagnavano come testimoniato da alcune raffigurazioni dell'epoca.
Con La Lanterna Magica ancora una volta abbiamo un chiaro esempio di scambio circolare tra livello “borghese-colto” e livello popolare “urbano”: un brano strumentale, di chiara fattura “colta”, come un valzer di Lanner, diventa “popolare” nelle strade di Napoli suonato coll’organetto da qualche musico ambulante per poi essere trascritto, o meglio, “imitato” da Cottrau, fornito di un testo in dialetto napoletano, inserito in una raccolta di canzoncine e ridestinato agli stessi “salotti” in cui era nato.