Prima fase 1824-1839

Tutto sembra iniziare nel 1824 quando Guillaume Cottrau, un francese arrivato a Napoli nel 1806 con il padre -un militare al seguito di Bonaparte- assume la direzione della casa editrice Bernardo Girard & C., indirizzandone le attività alla promozione della produzione musicale di Donizetti, Mercadante e Bellini assieme alla diffusione di un più vasto repertorio locale tramandato oralmente ma anche attraverso i cosiddetti “fogli volanti”. 

E al 1824 risale anche la prima uscita dei Passatempi musicali, una raccolta di brani vocali destinati a costituire una sorta di colonna sonora dei salotti del tempo e ad assicurarsi una notorietà internazionale grazie a un’abile operazione di strategia editoriale con moduli di sottoscrizione rivolti anche a stranieri. 
Le “canzoncine raccolte per la prima volta dalla bocca popolare”, a volte inventate interamente dallo stesso Cottrau, furono così rivisitate e corrette nell’intento di adattarle al gusto e alla sensibilità del pubblico colto e borghese dei potenziali abbonati alle raccolte musicali messe in vendita con cadenze periodiche. Di particolare interesse l’edizione del 1829 dei Passatempi musicali che comprende circa sessantotto “canzoncine” che, in molti casi, rappresentano la più antica fonte a stampa relative alle diverse matrici di musica napoletana ancora in uso agli inizi del XIX secolo e la cui importanza risalta ulteriormente in relazione ai pochissimi brani napoletani che saranno pubblicati nel decennio successivo.

Dal 1829 al 1839, infatti, la stessa casa editrice Girard pubblicò soltanto cinque canzoni in dialetto napoletano, tutte di estrazione per così dire colta e d’autore:

- la Nuova tarantella napoletana. No cchiù lo guarracino composta da Maria Felicia Garcia Malibran, famosa cantante di origine spagnola (anche se nata a Parigi) ma anche discreta compositrice, in  particolare di musica vocale da camera. Il brano era apparso nella raccolta Matinées musicales de M.me Malibran. Album lirique edita da B. Girard e C. nel 1832 ma pubblicata anche dall’editore Troupenas di Parigi;

- Tarantella. Ne vavò la chitarrella di Francesco Florimo su parole di Leopoldo Tarantini, che appare nella raccolta Ore Musicali del 1835;  

- Canzonetta della lavandaja nella farsa del Mº. Camillo Siri I Mille Tallari con l’incipit Quanno lo mierolo stace ‘ngaiola;

- La Conocchia che, musicata da Donizetti sull’adattamento in napoletano di Giovanni Emanuele Bidera di versi tratti dall’Egloga Piscatoria del poeta siciliano Giovanni Meli, appare per la prima volta nella raccolta Nuits d’été à Pausillipe, pubblicata nel 1836 a Napoli e diffusa anche a Roma, Londra e Parigi. 

- Amor marinaro. Canzone napoletana Me voglio fa na casa che, pubblicata nel 1837-38 nelle Soirées d’automne a l’Infrascata altro non è che una riscrittura donizettiana (con una musica diversa ma sullo stesso testo) del brano pubblicato anonimo da G. Cottrau col titolo Me voglio fa na casa… Canzone di pescatore.

In compenso, negli stessi anni, era molto vivace la produzione di “fogli volanti” destinati ai “lazzaroni” del Molo o a musici ambulanti come i viggianesi, con un profluvio di musiche, canzoni e brani di chiara derivazione popolare. La vita musicale popolare della Napoli del primo Ottocento gravitava attorno al Molo, con l’adiacente Largo del Castello (attuale Piazza Municipio), dove ogni giorno si tenevano diversi spettacoli tra i quali la ruota della fortuna, il teatrino ambulante delle bagattelle, le rappresentazioni dei Pulcinella nei due vicini teatri popolari (il San Carlino e il Sebeto) o anche le performance di saltimbanchi e ciarlatani che per richiamare l’attenzione spesso usavano “strumenti di carattere marziale come la tromba e il tamburo, in dispregio dei regolamenti sull’ordine e la quiete pubblica” (Bidera).

 

 

Altra presenza abituale sul Molo era quella dei cantastorie, detti anche canta-rinaldi perché, “con voce melodiosa”, narravano le ottave dei maggiori poemi cavallereschi di fronte a un pubblico di appassionati soprattutto alle gesta “di Rinaldo, in napoletano Linardo”. Di alcuni di loro si conoscono anche i nomi: Meneco lo sciancato e Michele detto “il cantore di Rinaldo”, un temuto camorrista al pari di Ciccio ‘o cinese, Raffaele ‘o fetente e Antonio lo zellusiello, a testimonianza di un insospettabile parallelismo tra le gesta dei cavalieri e il “codice d’onore” della malavita. Alcuni si esibivano con l’accompagnamento di chitarra o mandolino, secondo quanto consacrato in alcune acqueforti di Bartolomeo Pinelli e pubblicate in due raccolte con lo stesso titolo, Marinari sul molo di Napoli, ascoltando l’Istoria di Rinaldo

 

Un caso del tutto particolare deve essere stata La Cantastoria della Madonna del Carmine che, raffigurata anche in una litografia acquarellata di Francesco D’Amora risalente al 1820, era accompagnata da un violinista “coperto di stracci e capelli grigi” e che era realmente attiva in quegli anni e proprio nella zona del Molo visto che ne troviamo un’ampia descrizione  nel racconto di un viaggiatore inglese, Henry Morton, che aveva visitato Napoli nel 1826-1827. Una rara testimonianza dell’intonazione musicale di questo repertorio la si trova nei Passatempi musicali, con il brano anonimo dal titolo Storia di Angelo Del Duca come si canta sul Molo di Napoli: un componimento in ottava rima, come la maggior parte delle storie di briganti del periodo.

Oltre ai cantastorie, e come loro straordinarie figure di mediazione tra colto e popolare, intorno al Molo gravitavano anche i viggianesi, così chiamati perché provenienti da Viggiano, un paesino della Basilicata situato nella Val d’Agri, e depositari di un repertorio di novene natalizie, talora in unione con gli zampognari, e di tarantelle ma anche di arie d’opera (Cimarosa, Jommelli, Mercadante, Rossini e Bellini), canzoni in “italiano” come La Carolina  e di canzonette napoletane diffuse su fogli volanti come quelle “di Totonno Tasso” o di successo come Lo Cardillo e Io te voglio bene assaje.

Un’altra categoria di “musici” o, meglio, di “cantori” di area urbana presente a Napoli era quella degli improvvisatori, dotati di quello “splendido dono di cui il cielo ha provvisto la bella penisola più di ogni paese”, dono che si ritrova “nelle più infime classi e si manifesta in svariatissimi modi, nella declamazione di versi trovati sull’istante” (Mayer). A Napoli del resto vere e proprie sfide vocali si effettuavano adoperando anche altre forme di canto, le cosiddette fronne ‘e limone o anche i canti a figliola.

La sfida più importante di canti a figliola si teneva annualmente, al ritorno dalla festa di Montevergine, in piazza del Duomo a Nola, dove diversi cantatori gareggiavano, cantando da balconi e terrazze, con il pubblico sottostante che poteva acclamarli o fischiarli. E’ dunque più che verosimile che l’improvvisazione popolare a Napoli, nel primo Ottocento, si sia svolta su un “doppio binario”: da un lato gare di canti cosiddetti “a poeta” o “a braccio”, sul modello dell’ottava rima in lingua italiana o, meglio, ‘toscana’; dall’altro sfide di fronne e canti a figliola in napoletano, legate o al mondo della malavita oppure al contesto rituale delle feste popolari, in particolare quella di Montevergine.

Del resto, alcuni degli improvvisatori partenopei appartenevano a un ceto sociale e culturale elevato, come nel caso di Antonio Bindocci, avvocato di Siena e tra i più celebri e acclamati improvvisatori dell’epoca, al pari di Raffaele Sacco, stimato ottico napoletano dell’epoca: autori capaci di muoversi a proprio agio sia con forme riconducibili alla musica di tradizione orale sia con repertori colti di cui erano conoscitori e frequentatori, come era sicuramente Niccola Sole, altro famoso poeta improvvisatore dell’epoca, avvocato anch’egli, lucano di nascita ma napoletano di adozione, e in grandi rapporti di amicizia con Giuseppe Verdi.

L’unica fonte musicale napoletana del periodo sul repertorio degli improvvisatori in ogni caso la troviamo di nuovo nei Passatempi musicali, in quel brano intitolato significativamente Aria d’improvisatore  e in un altro brano ancora, dal titolo Barcarola popolare e con la specifica di ‘canzone d’improvvisatore’. 
E sarà proprio il successo inatteso quanto eccezionale di una canzone “improvvisata”, come Te voglio bene assaje, a determinare un profondo «cambiamento del gusto» collettivo, che preludeva alla nascita di un nuovo genere musicale, e a segnare anche l’avvio di una seconda e più tumultuosa fase storica agli albori della canzone napoletana.